Banca Marche, un altro crac «rosso»
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«Quello di Banca delle Marche costituisce il maggiore disastro bancario verificatosi in Italia dopo quelli risalenti al secolo scorso dei casi Sindona e Calvi».
Lo scrivono gli avvocati dell'istituto nell'atto di citazione in giudizio per 282,5 milioni di euro di danni presentata al Tribunale di Ancona contro gli ex amministratori e l'ex società di revisione Price Waterhouse Coopers.
L'atto fa riferimento a «un gran numero di irregolarità, carenze e violazioni commesse da amministratori, sindaci e funzionari che si sono succeduti dal 2006 nella gestione di Banca Marche», e a un «quadro impressionante di anomalie e violazioni gestionali», particolarmente riferiti a 37 grandi finanziamenti plurimilionari che sarebbero stati concessi a costruttori e imprese marchigiani e non, senza una adeguata valutazione di merito o garanzie.
Ma il caso di Banca Marche non è isolato. Anzi, guardando la geografia del credito, il centro Italia sembra essere stato colpito da un virus contagioso negli ultimi anni.
Dal Monte dei Paschi alla Popolare di Spoleto e a quella dell'Etruria, passando per la Tercas di Teramo (che con i cugini marchigiani ha intrecciato destini e affari) e allungandosi fino alla Cassa di Risparmio di Ferrara: tutti questi istituti si sono ritrovati ostaggio degli errori di un passato fatto di intrecci immobiliari, crediti offerti con disinvoltura agli amici degli amici e di interferenze da parte dei potentati di campanile anche attraverso le Fondazioni di riferimento.
Altro denominatore comune: il radicamento in regioni considerate storicamente feudi della sinistra, del Pci poi diventato Ds e infine Pd.
Il filo rosso che le unisce è quel legame patologico tra il credito e la politica locale spesso accomodata nelle Fondazioni, che ne ha minato le fondamenta passando da un'invadenza eccessiva all'incapacità di mettere un freno agli appetiti di potere.